Lo Studio Legale Latini ha ricevuto incarico di rappresentare il signor C. D., cittadino senegalese, nell'ambito del giudizio penale promosso dalla locale Procura della Repubblica per rispondere del reato previsto e punito dall'articolo 474 del codice penale.

Questi i fatti accaduti.

In data 20/09/2010 presso la stazione ferroviaria di Grosseto una pattuglia del reparto della Guardia di Finanza, nel corso di un servizio volto a prevenire la commissione di reati concernenti marchi contraffatti, procedevano dapprima al controllo dei documenti del signor C. D., cittadino senegalese, il quale risultava privo di precedenti penali specifici, poi procedevano altresì al controllo del bagaglio ove venivano rinvenuti diversi capi e accessori di abbigliamento recanti noti marchi di fabbrica presumibilmente contraffatti in quanto non soltanto la qualità del materiale si presentava a prima vista grezza e grossolana con le rifiniture degli articoli del tutto approssimative e non perfettamente longilinee ma erano addirittura prive dello stesso codice a barre identificativo del prodotto.

A seguito della richiesta dei militari il signor C. D. dichiarava di aver acquistato la predetta merce a Napoli ma non era in grado di esibire alcun documento che attestasse la legittima provenienza della merce detenuta.

In relazione a quanto emerso a seguito del controllo la merce veniva immediatamente sottoposta a sequestro penale in quanto costituente corpo del reato ed il signor C. D. veniva denunciato per il reato di cui all'articolo 474 del codice penale per la condotta di detenzione ai fini della vendita di prodotti con marchi di fabbrica contraffatti.

La disposizione di cui all'articolo 474 c.p., così come riformulata dalla L. 23/07/2009 nr. 99, disciplina e punisce, in due separati commi, la condotta di chi, fuori dai casi di concorso nei reati di cui all'articolo 473 c.p., ( comma 1) introduce nel territorio dello Stato prodotti industriali con marchi o segni contraffatti o alterati e quella di chi (comma 2), fuori dai casi di concorso nella contraffazione, alterazione, introduzione nello Stato, detiene per la vendita o mette altrimenti in circolazione i prodotti contraffatti al fine di trarre profitto.

La pena prevista per la fattispecie criminosa in oggetto è stata innalzata con la recente novella legislativa, introdotta quest'ultima per l'allarme derivante da introduzioni sempre più aggressive di merci contraffatte provenienti dall'Oriente, rispetto alla previgente disposizione - che prevedeva per ciascuna condotta elencata dalla norma la reclusione fino a due anni e la multa fino ad euro 2.065,00- suddividendola in due commi tanto che per il delitto di cui al primo comma la sanzione edittale prevista è adesso la reclusione da uno a quattro anni e la multa da euro 3.500,00 ad euro 35.000,00, mentre, per il secondo comma, la risposta sanzionatoria, più mite, è rappresentata dalla reclusione fino a due anni e la multa fino ad euro 20.000,00.

Con la novella legislativa del 2009 è stato inoltre inserito ex novo il terzo comma che, a fronte dell'inasprimento delle sanzioni penali previste per i due commi precedenti, subordina la punibilità dei delitti in esame alla condizione che siano osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale.

Il reato di cui all'articolo 474 c.p. ha il suo presupposto logico nella fattispecie di cui all'articolo 473 c.p. che ne rappresenta l'antefatto più grave consistente nel momento - precedente - della apposizione sul prodotto del marchio contraffatto, poi seguito, appunto, dalle condotte di introduzione o comunque di detenzione per il successivo commercio.

Secondo la giurisprudenza formatasi sulla vecchia versione dell'articolo 474 c.p., per la configurabilità del reato, innanzitutto, non è necessario una imitazione identica di tutti gli elementi del marchio, essendo sufficiente la riproduzione di quegli elementi fondamentali e caratteristici destinati a trarre in inganno i terzi ed a provocare quindi confusione circa l'origine e la provenienza del prodotto (cfr. Cass. Pen. Sez. II, 20/04/2011 nr. 20040 e Cass. Pen. Sez. II, 23/03/2011 nr. 13396), e, sebbene vi siano stati atteggiamenti ondivaghi in caso di cosiddetto falso grossolano intendendo per tale quel falso talmente evidente che non è suscettibile di rappresentare un fattore sviante della libera determinazione del compratore ( cfr. Cass. Pen. Sez. V, 23/02/2000 ) la più recente giurisprudenza di legittimità sembra attestarsi sul principio che per l'integrazione del reato è del tutto irrilevante la grossolanità della contraffazione, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi, che individuano le opere dell'ingegno ed i prodotti industriali, poiché l'articolo 474 c.p. tutela in via principale e diretta la fede pubblica, e non l'affidamento del singolo in concreto, essendo quindi sufficiente la potenziale lesione dell'affidamento dei consumatori nella qualità dei marchi, segno quest'ultimo distintivo della particolare qualità del prodotto commercializzato.

Per quanto infine concerne l'elemento soggettivo la nuova disciplina di cui all'articolo 474 c.p. richiede, per entrambe le ipotesi di cui al primo ed al secondo comma, il dolo specifico del fine di trarne profitto.

Non appena ricevuto l'incarico dal signor C. D., lo Studio Legale Latini provvedeva ad estrarre copia dei documenti relativi alle indagini preliminari effettuate contenute nel fascicolo del P.M. dal quale emergeva in primo luogo come la stessa pattuglia intervenuta aveva verbalizzato e certificato che la merce detenuta nel bagaglio dall'imputato era assai rozza e grossolana, priva di cuciture longilinee e di codici a barre e, in secondo luogo, che l'imputato era privo di precedenti penali specifici.

Tale macroscopica e certificata grossolanità, a ben vedere, poteva essere utile per sostenere, in chiave difensiva, l'ipotesi del reato impossibile ai sensi dell'articolo 49 c.p. in quanto era del tutto impossibile determinare in errore chicchessia sulla natura, come pure sulla autenticità del prodotto, anche se, come sopra detto, tale orientamento non era consolidato ed era peraltro contrastato in giurisprudenza.

A tal proposito l'articolo 49 c.p. dispone che "...la punibilità è esclusa quando, per l'inidoneità dell'azione o per l'inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso...", previsione normativa quest'ultima che è stata tradizionalmente applicata in numerose ipotesi di falso cosiddetto innocuo e/o grossolano allorquando l'evidenza del falso è così macroscopica che sia impossibile qualsiasi evento dannoso.

A sostegno della non punibilità del cosiddetto "falso grossolano" militava una giurisprudenza di merito, tra le altre, Corte di Appello di Palermo, sezione I, 05/03/2012 nr. 980 e Corte d'Appello de L'Aquila 12/03/2012 nr. 457, e, più di recente, una sentenza della Suprema Corte di Cassazione 32769/2013, che ha poi chiarito, come il falso possa essere considerato grossolano, e quindi, non punibile, allorquando esso sia percepibile ictu oculi senza bisogno di speciali accertamenti da parte di chicchessia così da escludere immediatamente la possibilità che una persona di comune avvedutezza e discernimento possa essere tratta in inganno configurandosi in tali ipotesi, e solo in tali ipotesi, un reato impossibile per inidoneità dell'azione ai sensi dell'articolo 49, comma 2, c.p..

In considerazione del particolare contenuto degli atti di indagine, alla prima udienza, veniva richiesta l'applicazione del giudizio abbreviato condizionato all'esame di un testimone, sentito, quest'ultimo, in fase di indagini difensive, quale soggetto che poteva fornire elementi utili alla difesa dell'imputato.

Tale scelta processuale, a fronte della limitazione probatoria insita nel rito abbreviato, avrebbe comunque determinato, in caso di condanna, una riduzione premiale di 1/3 rispetto al trattamento sanzionatorio in concreto irrogato.

A seguito dell'applicazione del rito abbreviato il Giudice del Tribunale di Grosseto acquisiva il fascicolo delle indagini preliminari dal quale emergeva, come detto, che i prodotti detenuti dal signor C. D. avevano fattezze assai grossolane, cuciture non longilinee e prive del tutto dei codici a barre, e, nel corso del giudizio abbreviato, veniva inoltre sentito il teste a discarico introdotto dalla difesa il quale riferiva che l'imputato fosse solito inviare capi di abbigliamento in Senegal quale dono ai familiari e che, pertanto, la detenzione della suddetta merce poteva non essere destinata alla vendita anche perché, come veniva dimostrato nel corso del giudizio, l'imputato era finanziariamente autonomo svolgendo una attività lavorativa regolarmente retribuita ed era pertanto inverosimile ritenere che lo stesso, per vivere, fosse dedito al commercio di merci con marchi contraffatti.

La strategia difensiva prospettata dalla difesa ha pertanto preso di mira alcuni elementi che risultavano certamente controversi rispetto alla punibilità tout court della fattispecie concreta.

In primo luogo essa ha tentato di sconfessare la sussistenza della stessa condotta penalmente rilevante tramite la valorizzazione delle caratteristiche estrinseche della merce detenuta, insuscettibile di indurre in errore chicchessia e pertanto determinante di per se l'impossibilità del verificarsi dell'evento di danno protetto dalla norma di legge introducendo nel processo la categoria del falso grossolano e del reato impossibile.
Sul diverso piano dell'elemento soggettivo, la strategia difensiva ha tentato di evidenziare, visti i risultati delle indagini espletate, l'assoluta carenza di alcuna prova circa l'esistenza di quel dolo specifico necessario affinché la mera detenzione - la contestazione della pubblica accusa era, appunto, detenzione al fine della vendita, di merce contraffatta - venisse ritenuta condotta penalmente rilevante, ossia, in altre parole, la sussistenza della prova che la detenzione fosse specificamente destinata al fine della vendita posto che la norma chiaramente distingue e distingueva, elevandole a rango di pari rilevanza penale, tanto l'ipotesi dell'atto di vendita ( o messa in circolazione) quanto quello della semplice detenzione che fosse pero' finalizzata alla realizzazione di una successiva vendita. A tal uopo, nel corso dell'arringa conclusiva, era stata richiamata una recentissima sentenza della Suprema Corte di Cassazione ( cfr. Cass. Pen. 28/09/2011 nr. 142 ) che aveva inteso ribadire come nel caso di contestazione della mera detenzione, come nel caso di specie, tale condotta doveva essere qualificata dalla prova di un quid pluris consistente nel fine della vendita poiché "...l'affermazione di responsabilità per il caso di mera detenzione di prodotti con marchi contraffatti, implica che la finalità di vendita sia provata, sulla base dei più disparati indizi, purché essi siano univocamente conducenti alla conclusione che il possesso sia diretto alla attività del successivo commercio…". Sebbene, come detto, trattasi di circostanza di fatto che poteva essere provata sulla base dei più disparati indizi, liberamente apprezzabili dal giudice di merito, purché essi fossero concludenti ed univocamente conducenti alla conclusione che il possesso fosse univocamente diretto alla attività del successivo commercio, tale punto doveva comunque essere oggetto di specifica e puntuale prova da parte dell'accusa che invece, nella fattispecie concreta, non era stata fornita in giudizio.

Altro motivo su cui si era mossa la difesa è stata la stessa mancanza di prova sulla sussistenza della condizione di punibilità prevista dal terzo comma dell'articolo 474 c.p. che, appunto, richiedeva e richiede che per ciascun marchio asseritamente contraffatto, fosse fornita la prova che fossero state osservate tutte le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale e/o industriale. Tale comma, a ben vedere, introdotto dal legislatore del 2009 per bilanciare l'inasprimento delle sanzioni penali previste dalla stessa normativa, onera la pubblica accusa di accertare preliminarmente che per i prodotti che recano marchi asseritamente contraffatti fossero state osservate le normative vigente in materia di tutela dei marchi industriali ed intellettuali e, in primis, fosse stata curata la rituale registrazione del marchio. A tal proposito la Suprema Corte di Cassazione, in una delle prime sentenze emesse a seguito dell'entrata in vigore della novella ( cfr. Cass. Pen. Sez. V, 27/02/2013 nr. 9340 ) ha osservato che, poiché la tutela penale dei marchi o dei segni distintivi delle opere dell'ingegno o di prodotti industriali è finalizzata alla garanzia dell'interesse pubblico preminente della fede pubblica più che a quello privato del soggetto inventore, l'articolo 474, comma 3, c.p. deve essere interpretato nel senso che per la configurabilità dei delitti contemplati dai precedenti commi dello stesso articolo è necessario che il marchio o il segno distintivo, di cui si assume la falsità, sia stato depositato, registrato o brevettato nelle forme di legge all'esito della prevista procedura, sicché la falsificazione dell'opera dell'ingegno può aversi soltanto se essa sia stata formalmente riconosciuta come tale e, d'altra parte, come è noto, essendo il brevetto un atto pubblico e non un mero certificato amministrativo, in quanto si tratta di atto costitutivo di diritti, in quanto tale poteva essere agevolmente acquisito agli atti dalla pubblica accusa mediante richiesta alle istituzioni competenti. Il terzo comma dell'articolo 474 c.p. è stato introdotto sulla scorta della previsione già contenuta nell'articolo 473 c.p., fattispecie incriminatrice quest'ultima logicamente antecedente, come visto, e più grave di quella prevista dal successivo articolo 474 c.p. ma certamente collegata a quest'ultima. A seguito della novella del 2009, si è affermato addirittura come lo stesso articolo 473 c.p. tuteli il marchio o segno distintivo sol che esso sia stato depositato, registrato o brevettato nelle forme di legge (cfr. Cass. Pen. Sez. II, 19/10/2012 nr. 42446) e soltanto all'esito positivo della procedura amministrativa ritualmente avviata (cfr. Cass. Pen. Sez. V, 12/04/2012 nr. 25273).

Il giudice del Tribunale di Grosseto, con propria sentenza depositata in data 09/12/2013, ha avuto modo di rigettare il primo punto contestato dalla difesa sulla insussistenza del reato per l'evidente grossolanità del prodotto e la sussistenza del reato impossibile, aderendo a quel diverso orientamento giurisprudenziale che individuando l'oggetto del reato nella tutela della pubblica fede e non nella libera determinazione dell'acquirente conclude come la mera realizzazione di un inganno nel singolo acquirente non è elemento integrativo della fattispecie incriminatrice e pertanto deve essere esclusa la configurazione del reato impossibile in caso di grossolanità della contraffazione e di condizioni di vendita tali da impedire l'errore degli acquirenti dal momento che, come egli chiarisce, bisogna piuttosto aver riguardo alla potenzialità lesiva del marchio, connaturata all'azione di diffusione in riferimento ad un numero indeterminato ed indeterminabile di consociati nel corso della loro successiva utilizzazione così aderendo a quella giurisprudenza rappresentata, tra le altre, dalla Cass. Pen. Sez. V, 12/03/2008, attualmente non del tutto consolidata come sopra visto.

Sebbene lo stesso giudice rilevi come esista un diverso orientamento di legittimità e di merito sul punto, tuttavia, tale indirizzo ermeneutico si è ritenuto essere stato superato assestandosi nell'orientamento favorevole ad ammettere la punibilità anche nelle ipotesi di grossolanità della contraffazione.

Il giudice del Tribunale di Grosseto ha ritenuto invece fondata l'allegazione difensiva in ordine alla mancata prova, da parte della pubblica accusa, della finalità di vendita della merce detenuta posto che, come egli rileva e come la difesa si è sforzata di allegare in corso di giudizio, a fronte della contestazione del reato di detenzione di merce contraffatta finalizzato alla successiva vendita, alcuna prova è stata fornita a dimostrazione di tale specifica finalità posto che, come egli rileva "...come emerge dagli atti, i prodotti in questione si trovavano custoditi all'interno della valigia che l'imputato portava con se, per cui non si può escludere che lo stesso volesse farne un uso diverso dalla commercializzazione posto oltretutto che la testimone escussa ha riferito che l'imputato era solito comprare prodotti di questo genere per spedirli ai suoi familiari...in conclusione esiste, quantomeno un ragionevole dubbio sulla finalità della detenzione di tali prodotti da parte dell'imputato..." mandandolo pertanto assolto, anche in ossequio alla regola del favor rei, perché il fatto non sussiste.