Lo Studio Legale Latini ha ricevuto l'incarico di difendere fiduciariamente una persona indagata ed arrestata – unitamente a numerose altre persone - a seguito della richiesta formulata dalla Direzione Distrettuale Antimafia volta all'ottenimento di una ordinanza di custodia cautelare in carcere, poi effettivamente emessa dal G.I.P. presso il Tribunale competente, nell'ambito di un più ampio procedimento penale volto a smantellare una rete di trafficanti internazionali e locali di sostanze stupefacenti.

L'indagine promossa dalla D.D.A. ha appunto avuto riguardo al reato associativo previsto e punito dall'art. 74, d.p.r. 309/1990 il quale, rubricato Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, recita che "…quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti tra quelli previsti dall'articolo 73, chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia l'associazione è punito per ciò solo con la reclusione non inferiore a venti anni…chi partecipa all'associazione è punito con la reclusione non inferiore ad anni dieci……".

A seguito della informativa sull'arresto dell'indagato e della contestuale nomina a difensore di fiducia lo Studio Legale Latini ha fin da subito provveduto ad approntare autonome indagini difensive, anche sulla scorta delle dichiarazioni rese al difensore dall'arrestato, finalizzate a ricostruire l'ambiente ove l'indagato si muoveva nel periodo in cui si riferivano i fatti di causa intervistando persone vicine allo stesso onde accertare possibili elementi da porre a base della istanza di scarcerazione.

Ma andiamo con ordine.

In un processo ad ispirazione accusatoria, incardinato sul principio della parità delle parti - accusa e difesa - la misura cautelare della limitazione della libertà rappresenta un momento di frizione dell'intero equilibrio processuale, proprio perché viene adottata prima del processo, momento naturalmente deputato all'accertamento della responsabilità, ed in funzione di esso. Molto spesso si è anche potuto constatare come la misura cautelare personale sia stata strumento di pressione psicologica per ottenere la confessione e/o ampie chiamate di correo in questo modo snaturando la funzione che gli è propria.

Nella fattispecie concreta la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere che, per inciso, ha riguardato oltre 30 persone coindagate a diverso titolo per il medesimo reato associativo si è basata sostanzialmente sulle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, sulle conseguenti intercettazioni telefoniche ed ambientali oltreché sui pedinamenti effettuati dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini.

Per quanto concerne, più in particolare, la posizione dell'indagato difeso dallo Studio Legale Latini la misura veniva richiesta a cagione delle dichiarazioni rese a più riprese da un unico collaboratore di giustizia che dapprima sembrava collocare la partecipazione dell'indagato alla consorteria criminosa nell'ambito di quella, per così dire, "semplice", successivamente, lo collocava addirittura quale vero "organizzatore, promotore e finanziatore" del gruppo criminale.

Inutile dire come il trattamento sanzionatorio sia assai diverso nelle suindicate due ipotesi poiché nel primo caso chi partecipa all'associazione è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni mentre nella seconda ipotesi, più grave, la pena non può essere inferiore a venti anni di carcere.

Nel caso specifico veniva dunque contestato all'imputato la partecipazione e/o organizzazione e finanziamento di una organizzazione a delinquere dedita all'acquisizione ed il successivo spaccio di sostanze stupefacenti.

L'elemento costitutivo del delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – come per tutti i reati associativi – è rappresentato dall'esistenza di un vincolo associativo di natura permanente fra tre o più persone qualificato da una minima organizzazione, anche non particolarmente strutturata gerarchicamente, ma comunque a carattere stabile, vincolo che sia destinato a perdurare anche dopo la consumazione dei singoli delitti programmati, nonché da un programma criminale volto alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti anche se non concretamente realizzatisi.

Tali caratteristiche a ben vedere sono peculiari del reato associativo e lo distinguono dal semplice concorso di persone nel reato di cui agli articoli 110 e segg. c.p..

E' dunque la esistenza del vincolo criminoso, ossia di un accordo stabile e duraturo in quanto destinato a perdurare oltre la commissione dei singoli reati, che deve costituire oggetto di accertamento del giudice.

Secondo la monolitica giurisprudenza, per la sussistenza del sodalizio criminale non è necessario un accordo espresso, consacrato per ipotesi in forma scritta o per iniziazione o in altre manifestazioni di formale adesione essendo soltanto sufficiente l'esistenza di fatto di una struttura organizzata finalizzata al compimento di un programma criminoso.

Proprio la mancanza nella realtà di adesioni formali determina che in concreto il giudice potrà provare l'esistenza di una organizzazione criminosa e della partecipazione di determinati soggetti a tale sodalizio per facta concludentia come la continuità, la frequenza e l'intensità dei rapporti tra i vari soggetti, l'interdipendenza della loro condotta, la predisposizione dei mezzi finanziari, l'uso comune di locali e strumenti necessari alle operazioni delittuose, l'effettuazione di numerosi viaggi per il rifornimento della droga in località particolarmente idonee oltreché la stessa efficienza ed adeguatezza dell'organizzazione (cft. Cass. Pen. Sez. VI, 13/12/2000 nr. 10781).

Come sopra indicato la richiesta di custodia in carcere nei confronti dell'indagato assistito dallo Studio Legale Latini si è basata sulle dichiarazioni accusatorie di un collaboratore di giustizia le quali lo hanno indicato quale partecipante al sodalizio criminoso.

La concreta applicabilità delle misure cautelari è tuttavia sottoposta ad un duplice vaglio di ammissibilità. In primo luogo dovrà procedersi alla valutazione, che dovrà essere necessariamente positiva, della sussistenza delle condizioni generali di applicabilità delle misure stesse, ossia la verifica della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle altre condizioni previste dall'articolo 273 c.p.p., ossia verificare se risulta che il fatto è stato compiuto in presenta di una causa di giustificazione o di non punibilità o se sussiste una causa di estinzione del reato o della pena che si ritiene possa essere irrogata.

Superato il primo vaglio di ammissibilità necessario e prodromico all'applicabilità di una misura cautelare dovrà altresì sussistere almeno una delle esigenze cautelari indicate dal successivo articolo 274 c.p.p. ossia:

  • il concreto ed attuale pericolo di inquinamento della prova che ovviamente deve essere fondato su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento, a pena di nullità;
  • il pericolo concreto ed attuale che l'indagato e/o imputato si dia alla fuga sempreché il giudice ritenga che nel caso specifico possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione;
  • oppure quando per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti o comunque altri delitti della stessa specie di quello per cui si procede.

Nella fattispecie concreta la chiamata in reità era unicamente basata sulle dichiarazioni rilasciate da un unico collaboratore di giustizia che rendeva al Pubblico Ministero informazioni concernenti la presunta partecipazione dell'indagato alla consorteria criminosa.

La totalità di tali dichiarazioni tuttavia non soltanto riguardavano fatti e circostanze apprese dal collaboratore di giustizia de relato - dagli stessi arrestati - durante taluni incontri avvenuti nell'ambiente dell'organizzazione ma contenevano valutazioni personali e soggettive in alcun modo suffragate da elementi esterni individualizzanti che sarebbero state colpite dalla inutilizzabilità nel successivo giudizio di merito.

Tali dichiarazioni oltretutto non erano neppure sufficientemente specifiche e dettagliate ma del tutto generiche e prive di riscontri individualizzanti non riferendosi in alcun modo a condotte, comportamenti o fatti specifici suscettibili di fornire la prova della consapevolezza dell'indagato dell'intento di contribuire al perseguimento degli interessi del sodalizio posto che, com'è noto, nel reato associativo la chiamata in correità investe il ruolo ed il contributo offerto dall'indagato nell'ambito del sodalizio criminoso piuttosto che singoli ed individuabili comportamenti che potrebbero essere inquadrati in altri ambiti (cft. Cass. Pen. 26/03/1999).

Unico elemento di riscontro fornito era il mero rapporto di convivenza sussistente all'epoca dei fatti tra l'arrestato e l'indicato presunto capo banda cosa che, evidentemente, poteva viceversa portare ad una interpretazione del tutto antitetica rispetto a quella necessaria a provare quel quid pluris consistente nella vera e propria partecipazione alla consorteria criminosa.

Dal materiale probatorio emerso a seguito delle indagini difensive appariva tuttavia una ricostruzione fattuale sostanzialmente diversa rispetto a quella ricostruita sulla base delle scarne, generiche e lacunose dichiarazioni del collaboratore di giustizia del tutto incompatibile con gli elementi successivamente accertati.

La sola circostanza del rapporto di convivenza tra l'imputato ed il presunto capo banda poteva invero portare ad interpretazioni diametralmente opposte rispetto a quelle ipotizzate in quanto in tal caso l'eventuale presenza dell'indagato assieme al presunto capo e promotore del sodalizio criminoso poteva appunto essere inquadrato nel mero rapporto di convivenza esistente tra i due e non quale contributo concreto ad una organizzazione criminale. Tale preliminare considerazione è necessaria e prodromica alla valutazione delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia che, almeno per quanto concerne la posizione dell'indagato, non pare abbiano fornito in alcun modo la prova della sussistenza di quel quid pluris necessario a fondare il reato associativo rappresentato dalla "coscienza e volontà" di contribuire attivamente per il raggiungimento delle finalità associative e, a fortiori, di quei gravi indizi di colpevolezza del coimputato necessari per l'applicazione di misure coercitive.

Invero, ai sensi dell'articolo 273 c.p.p. i gravi indizi di colpevolezza rappresentano la condicio sine qua non per l'applicazione di misure restrittive della libertà personale e, come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, i gravi indizi andrebbero riscontrati in quegli elementi a carico – diretti o indiretti – che, resistendo ad interpretazioni alternative e caratterizzati da una consistenza quantitativamente e qualitativamente adeguata, consentono – sulla scorta di un giudizio prognostico – di prevedere che, mediante la futura acquisizione di elementi ulteriori, saranno idonei a fondare e dimostrare la penale responsabilità del soggetto, essendo nel frattempo significativi di una elevata probabilità di colpevolezza (cft. Cass. Pen. SS. UU. 21/04/1995, Cass. Pen. SS.UU. 30/05/2006 n. 16). Qualora, come nel caso di specie, l'unica fonte di accusa sia rappresentata dalle dichiarazioni accusatorie di un collaboratore di giustizia, la stessa dovrà essere riscontrata "ab externo" (cft. Cass. Pen. Sez I, 04/05/2005, ric Lo Cricchio) ovvero sulla scorta di elementi ulteriori rispetto a quelli provenienti dal dichiarante, ritenuti assolutamente necessari e funzionali al giudizio di credibilità del chiamante stesso il tutto onde evitare la c.d. "circolarità della prova" ovvero quel meccanismo secondo cui la verifica dell'attendibilità del dichiarante si esaurisca con la chiamata stessa.

La Suprema Corte di Cassazione (cft. Cass. SS.UU. 30/10/2006 n. 36267) ha avuto modo di ribadire come le dichiarazioni dei collaboratori possono integrare i gravi indizi di colpevolezza di cui all'articolo 273 c.p.p. – e, pertanto legittimare una misura cautelare – solo ed esclusivamente se, ferma restando la loro intrinseca attendibilità, siano anche supportate da riscontri esterni individualizzanti, significativi in termini di elevata probabilità della colpevolezza del chiamato e, cioè, aventi idoneità dimostrativa in relazione alla attribuzione del fatto di reato al soggetto destinatario della misura.

Dichiarazioni che, se prive di tali riscontri, non potrebbero in alcun modo essere poste a fondamento di una misura cautelare, stante l'importanza e la funzionalità degli stessi relativamente al giudizio di credibilità del chiamante. In altre parole, la sussistenza dei riscontri individualizzanti non deve essere fine a se stessa ma debbono garantire anzitutto la valutazione della credibilità del collaboratore, secondariamente l'efficacia indiziaria della dichiarazione resa da quest'ultimo nonché, infine, la razionalità – in termini sia di ragionevolezza che di legittimità – della eventuale misura cautelare, rispetto alla cui decisione la sussistenza dei suddetti riscontri rappresenta una condizione necessariamente prodromica.

Ovviamente, tali elementi di supporto saranno "individualizzanti" allorché – siano essi di qualsiasi tipo e natura, anche di ordine puramente logico – riguardino direttamente la persona dell'incolpato con specifico riferimento ai reati ad esso addebitati (cft. Cass. Pen. Sez. I 10/11/2003 n. 4178), ovvero riscontri necessariamente caratterizzati da elementi fattuali direttamente riferibili all'incolpato ed alla sua condotta, che suffraghino oggettivamente le dichiarazioni, con elementi specifici e concreti – in termini di fatto o di condotta – idonei a storicizzare l'accusa (cft. Cass. Pen Sez. VI 14/02/1997 n. 665 ).

I principi di diritto statuiti dalle Sezioni Unite del 2006 sono state successivamente – ed anche recentemente (cft. Cass. Pen. Sez. I 02/03/2010 n. 11058 e Cass. Pen. Sez. I 17/05/2011 n. 19759) – ribaditi e confermati in toto dalle sezioni semplici della corte di legittimità.

Addirittura nell'ipotesi, non sussistente nel caso di specie, di dichiarazioni di più collaboratori di giustizia che tuttavia rendano dichiarazioni generiche, come in quello affrontato dalla Corte di Cassazione Sez. VI 08/11/2011 n. 40520, la corte ha ribadito come tali dichiarazioni non siano sufficienti a fondare i gravi indizi di colpevolezza ma che viceversa occorrono, anche in tale ipotesi, riscontri obiettivi ed esterni relativamente alla condotta partecipativa del ritenuto sodale.

La ratio sottesa alla sentenza Cass. Pen. 40520/2011 è quella di evitare che le propalazioni dei collaboratori si risolvano in meri giudizi soggettivi, e che l'esistenza del fatto di reato – anche se solo a livello di gravità indiziaria ex art. 273 c.p.p. – venga desunta esclusivamente dalle isolate dichiarazioni degli stessi soggetti accusatori.

In definitiva, le chiamate in correità, prima di essere sottoposte a fondamento di una misura privativa della libertà personale debbono necessariamente essere sottoposte ad un rigoroso e scrupoloso vaglio da parte degli organi inquirenti prima, e della autorità giudiziaria poi onde evitare che un soggetto possa subire conseguenze pregiudizievoli come la custodia cautelare in carcere sulla scorta di generiche e non riscontrate dichiarazioni.

Dal momento che, nella fattispecie concreta, tali dichiarazioni oltreché generiche, non circostanziate ed apprese de relato, erano del tutto prive di riscontri esterni ed individualizzanti, comunque filtrate dalla soggettiva e marginale percezione della realtà fattuale dello stesso collaboratore di giustizia, lo Studio Legale Latini ha provveduto a depositare istanza di revoca della misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 299 c.p.p. fondandola in primis sulle lacunose e generiche dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltreché sulle dichiarazioni ottenute a seguito di indagini difensive dimostratesi del tutto incompatibili con l'appartenenza dello stesso indagato ad una associazione a delinquere del tipo ipotizzato, ottenendo, grazie alla rivalutazione operata dal G.I.P. degli elementi di prova forniti dall'accusa, evidentemente non più sufficienti per ritenere la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza dell'indagato, l'immediata scarcerazione dello stesso.

D'altra parte la bontà del provvedimento di scarcerazione è lapalissiana laddove si consideri che per procedere all'applicazione di una misura incisiva ed afflittiva come la custodia cautelare in carcere, in uno Stato di diritto come il nostro, appare necessaria la sussistenza quantomeno di gravi indizi di colpevolezza suscettibili di resistere oltre ogni ragionevole dubbio. A tal proposito, una recentissima sentenza della Suprema Corte, sentenza n. 16939 del 7 maggio 2012, ha accolto il ricorso di due imputati del reato di omicidio, già condannati nei precedenti gradi di giudizio sulla base delle dichiarazioni, ancora una volta generiche e non circostanziate fornite da taluni collaboratori di giustizia anch'essi coinvolti nell'inchiesta, ritenendo di dover mandarli assolti per il reato contestato.

Le dichiarazioni cd. de relato, come hanno avuto modo di precisare i giudici di legittimità, sono colpite da inutilizzabilità assoluta se non sono suffragate da sufficienti elementi oggettivi esterni.

Alle suddette dichiarazioni, precisa la Corte, si applica la medesima normativa che riguarda le dichiarazioni de relato rilasciate dai soggetti terzi estranei al processo che prevedono l'obbligo di esaminare la fonte diretta dell'informazione al fine di cercare una convalida od un controllo su quanto riferito.

Tale disciplina garantistica deve osservarsi a maggior ragione quando le dichiarazioni indirette provengano dagli stessi coimputati e/o coindagati di regola interessati a dimostrare una determinata versione dei fatti che vada a proprio vantaggio.