Nell'ambito della propria attività professionale lo Studio Legale Latini ha affrontato la questione della mancata compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi in ipotesi di investimenti ed attività di natura finanziaria - in questo caso, come vedremo in seguito, asseritamente - detenute all'estero. Ed invero si rivolgevano allo studio alcuni clienti i quali avevano ricevuto in data 17/04/2015 la notifica da parte dell'Agenzia delle Entrate dapprima di un invito al contraddittorio relativamente agli anni di imposta 2005/2006/2007 e, successivamente, in data 10/12/2015, plurimi atti di contestazione coi quali l'amministrazione finanziaria contestava la violazione della disciplina sul monitoraggio fiscale di cui al D.L. 28/06/1990 nr. 167 per le annualità indicate contestando in sostanza la mancata compilazione del quadro RW nelle ipotesi di investimenti od attività finanziarie comunque detenute all'estero.

Il richiamato decreto, non a caso rubricato "Rilevazione ai fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l'estero di denaro, titoli e valori", ha il chiaro intento di consentire la rilevazione ed il controllo di talune operazioni finanziarie da e verso l'estero, anche al fine di implementare la cooperazione e lo scambio di informazioni tra paesi comunitari. Sotto il profilo dichiarativo tale obbligo trova, appunto, espressione, nella compilazione del quadro RW del modello Unico costituendo parte integrante dello stesso. La disciplina poi si completa con la previsione delle sanzioni applicabili di cui all'articolo 5) del D.L. 167/1990. In ipotesi di inosservanza delle richiamate disposizione è previsto che, a titolo di sanzione amministrativa, laddove gli obblighi di trasmissione all'Agenzia delle Entrate vengano violati da intermediari abilitati, ovverosia istituti bancari e finanziari ed altri operatori, si applichi la sanzione pecuniaria dal 10 al 25 per cento dell'importo non segnalato per ciascun periodo di imposta.

Per le persone fisiche, gli enti non commerciali e le società semplici che non adempiano all'obbligo di monitoraggio fiscale è previsto invece, a titolo di sanzione amministrativa, la più lieve sanzione pecuniaria dal 3 al 15 per cento dell'ammontare degli importi non dichiarati, per ciascun periodo d'imposta, e, laddove tali importi siano detenuti in paesi a regime fiscale privilegiato, c.d. Black List, la sanzione è raddoppiata ed è applicata in misura dal 6 al 30 per cento dell'ammontare degli importi non dichiarati per ciascun periodo d'imposta. Come si vede le sanzioni pecuniarie possono essere molto elevate ed applicabili in rapporto all'entità delle somme effettivamente detenute all'estero per ciascun periodo di imposta.

Nella fattispecie concreta l'accertamento prendeva le mosse da un procedimento penale incardinato presso la Procura della Repubblica di Firenze, teso a verificare l'esistenza di una associazione a delinquere a carattere transnazionale finalizzata all'abusiva attività finanziaria ed alla truffa ai danni di clienti italiani, poi effettivamente accertata. Precisamente tale sodalizio svolgeva la propria attività raccogliendo risparmi, per il tramite di una fitta rete di compartecipi, nel territorio dello Stato da centinaia di investitori eppoi, in alcuni casi, li ritrasferiva all'estero con la falsa promessa che gli investimenti avrebbero fruttato interessi superiori alla media del mercato di riferimento. Tra i moltissimi soggetti frodati da questa associazione a delinquere – il cui organizzatore, per inciso, è stato condannato ad otto anni di carcere con sentenza passata in giudicato – vi erano anche i clienti dello studio i quali, purtroppo, dopo aver dimostrato all'Agenzia delle Entrate la legittima provenienza dei risparmi di una vita "investiti" sulla base delle ampie rassicurazioni anche documentali fornite dalla organizzazione, dopo aver scoperto di essere stati truffati e quindi neppure avere la certezza di poter riottenere le somme versate, hanno dovuto subire un accertamento da parte dell'Agenzia delle Entrate la quale, nella occasione, contestava la violazione della normativa sul monitoraggio fiscale.

I clienti, comprensibilmente profondamente avviliti, riferivano e documentavano che all'atto della consegna del denaro veniva rilasciato, tra i documenti, un certificato di deposito, un contratto di amministrazione e gestione del portafolio, oltreché un attestazione rilasciata da una banca elvetica con la quale si dichiarava la legittimità della operazione e che le somme riconosciute a titolo di interessi attivi erano da considerarsi tassati alla fonte e quindi al netto delle imposte che sarebbero state versate direttamente dall'Istituto di Credito elvetico allo Stato italiano quale sostituto d'imposta. Ovviamente nel giudizio penale conseguente a questa truffa milionaria veniva accertato che tutti i documenti rilasciati ai vari risparmiatori erano falsi, che di conseguenza nessun deposito era a loro intestato e/o riferibile nelle banche elvetiche, veniva altresì accertato che l'organizzatore si proponeva come operatore nell'ambito del mercato della intermediazione finanziaria avvalorando nei clienti la convinzione di operare per conto di un notissimo gruppo bancario elvetico e della omonima famiglia di banchieri il tutto senza che l'investitore fosse minimamente informato dei rischi e senza che lo stesso potesse gestire in alcun modo la somma consegnata.

Nonostante ciò, come detto, l'Agenzia delle Entrate, inviava plurimi avvisi di contestazione per la violazione della normativa sul monitoraggio fiscale.

I clienti, che si sentivano doppiamente truffati e danneggiati da tale situazione, decisero pertanto di proporre ricorso, questa volta, per il tramite dello Studio, dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale per una serie di motivazioni in fatto ed in diritto. In primis veniva posto in rilievo, in relazione alla fattispecie concreta, in via pregiudiziale ed assorbente rispetto al merito, l'intervenuta prescrizione per i periodi d'imposta contestati non potendo applicarsi, con effetto retroattivo, l'art. 12) del D.L. 78/2009.

Come è noto la disposizione di cui all'art. 12) surrichiamata ha introdotto un regime di presunzione legale relativa secondo la quale, in assenza di prova contraria ad opera del contribuente, le somme detenute in paesi "Black List" sono considerati come redditi sottratti a tassazione e, per quanto qui rileva, i commi 2-bis) e 2-ter), prevedono in tali ipotesi la previsione del raddoppio dei termini per l'accertamento. Veniva tuttavia rilevato non soltanto che l'applicazione della suddetta normativa presupponeva la prova certa, che nella fattispecie concreta non era sussistente ed era anzi smentita dalla sentenza del Tribunale di Firenze poi confermata in secondo grado dalla Corte di Appello, della detenzione di attività finanziarie e/o risparmi in un paese Black List, ma, in ogni caso, essa norma non poteva applicarsi, secondo la giurisprudenza oramai consolidata in osservanza dello Statuto del Contribuente, ai periodi di imposta nel caso di specie contestati poiché ciò avrebbe legittimato una applicazione retroattiva di una norma sostanziale.

L'Amministrazione finanziaria, invece, sosteneva che la richiamata disposizione non avesse natura sostanziale ma meramente procedurale e che quindi, come tale, fosse legittima una applicazione retroattiva della disposizione anche a periodi d'imposta precedenti. La difesa invece, sia in sede preliminare che in sede giudiziale, ribadiva come avendo il legislatore positivizzato il principio di irretroattività di cui all'art. 3) della L. 212/2000, meglio noto come "Statuto del Contribuente", e che, inoltre, tale principio potesse essere derogato soltanto in maniera espressa, la disposizione in parola nulla disponeva sia in merito alla propria contestata retroattività e neppure per quanto concerne l'ambito temporale di applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 2Bis) e 2ter) e pertanto dovesse valere il principio generale. In proposito v'è da dire che la giurisprudenza che si è occupata della questione ha avuto modo di aderire alla non applicabilità retroattiva della disposizione (cft. C.T.R. Firenze sez. 31, 1600/2016, C.T.R. Firenze sez. 29, 989/2015, C.T.R. Milano sez. 24, 26/2013, C.T.R. Milano sez. 1, 1865/2017, C.T.R. Venezia 419/2017 ed altre) che appare pertanto oramai ampiamente consolidata.

Nel merito, come prima accennato, la difesa dei contribuenti rilevava la violazione dell'art. 1) e 4) del D.L. 167/1990 convertito nella L. 227/1990 in relazione alla carenza di prova certa della effettiva esistenza di capitali all'estero e con ciò venendo meno uno dei fatti costitutivi per l'applicazione della legge richiamata. In effetti i documenti acquisiti da parte della Agenzia delle Entrate – in particolare i certificati di deposito, i contratti di gestione ed amministrazione a favore della società del gruppo associativo criminoso, già facenti parte del fascicolo delle indagini – non potevano certo costituire prova della esistenza di risparmi dei ricorrenti in Svizzera essendo evidente che tutti i documenti acquisiti erano stati dichiarati incontrovertibilmente falsi da accertamenti contenuti in sentenze emesse dall'Autorità Giudiziaria già passate in giudicato e quindi non suscettibili di provare alcunché.

La disposizione di cui all'art. 5) del D.L. 167/1990 sanziona inoltre la mancata dichiarazione sul quadro RW soltanto allorquando le persone fisiche, nel periodo d'imposta considerato, effettivamente detengano investimenti all'estero ovvero attività estere di natura finanziaria e tale circostanza, anche in seguito alla rogatoria effettuata in sede penale, non è stata accertata. La difesa sul punto, pertanto, concludeva rilevando come la pretesa dell'Amministrazione finanziaria fosse del tutto destituita di fondamento poiché mancante di uno dei presupposti fondamentali per l'applicazione di tale normativa.

Altra eccezione sollevata in sede di ricorso è che l'azione dell'Agenzia delle Entrate ha violato gli artt. 1) e 4), comma 3, del D.L. 167/1990 in relazione, comunque, alla sussistenza di un contratto di amministrazione e gestione ad intermediari italiani putativi con conseguente inesistenza della violazione contestata in applicazione dell'esonero previsto dall'art. 4), comma 3, D.L. citato e dell'art. 3), comma 5, d.lgs. 472/1997. In particolare l'art. 1), comma 1, del D.L. 167/1990, ratione temporis vigente, prevedeva che allorquando i trasferimenti di denaro fossero effettuati attraverso intermediari questi ultimi, e non i singoli risparmiatori, fossero tenuti a trasmettere all'Agenzia delle Entrate i dati relativi alle predette operazioni oggetto di rilevazione, mentre il successivo art. 4), comma 3 prevedeva che gli obblighi di indicazione nella dichiarazione dei redditi previsti nel comma 1) non sussistessero per le attività finanziarie e patrimoniali affidate in gestione o in amministrazione agli intermediari residenti e per i contratti conclusi attraverso il loro intervento. Ed ancora che, in ogni caso, gli obblighi di indicazione nella dichiarazione dei redditi previsti nel comma 1 non sussistono altresì per i depositi ed i conti correnti bancari costituiti all'estero il cui valore massimo complessivo raggiunto nel corso del periodo d'imposta non sia superiore ad euro 15.000,00.

Circostanze, ad ogni modo, tutte sussistenti nella fattispecie concreta. Ed invero ai suddetti malcapitati veniva rilasciato, al momento del pagamento delle somme ai sodali dell'associazione criminosa, unitamente al Certificato di Deposito, un contratto di amministrazione e gestione del portafolio e la somma comunque ivi rappresentata, al netto degli interessi di anno in anno maturati, in quanto nulli, era comunque inferiore al limite indicato dalla legge.

A seguito del promosso procedimento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale essa, in accoglimento della eccezione pregiudiziale di prescrizione dell'azione, senza entrare nel merito delle più che fondate eccezioni sollevate, accoglieva in ogni caso il ricorso annullando i plurimi avvisi di contestazione notificati ai contribuenti dall'Agenzia delle Entrate.